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L’estetica del frammento in “Heart of a dog” di Laurie Anderson.

Laurie Anderson, fin dagli inizi della sua lunga carriera, ha sempre fatto del mash-up, dell’interazione tra le varie discipline artistiche, il suo marchio di fabbrica. Performer, poetessa, musicista, fotografa, compositrice, la sua arte, fin dagli inizi (1980 con lo spettacolo teatrale United States ) è legata ad una lucidissima vocazione sincretica di forme artistiche diverse organizzate in modo da dare vita a corpi culturali  molto simili tra loro: nell’utilizzo di un linguaggio sospeso tra memoria e tecnologia, nel rifiuto della fiction come dinamica interna, nella ricerca di una circolarità interna allusiva e indiretta.

L’assemblaggio come strumento di conoscenza

Non fa eccezione questo Heart of a dog, il primo lungometraggio firmato dalla Anderson, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2015. Il rapporto con il suo rat terrier, Lolabelle, la malattia di questa e la sua morte dopo il rifiuto da parte della Anderson di praticarle l’eutanasia, sono l’ordito per tessere un film fatto di una molteplicità di racconti, riflessioni, ricordi, che si intrecciano tra loro a formare una trama che, a prima vista, potrebbe apparire confusa o quantomeno rapsodica.  Per un’ora e passa la regista da’ voce ad un flusso inarrestabile di  storie mentre sullo schermo si inseguono immagini rigorosamente  non costruite, frutto di assemblaggio di pezzi di super-8, video familiari, disegni dell’ artista in animazione veloce, spezzoni di riprese di telecamere a circuito chiuso.

Aneddoti strazianti (l’amico scultore morente che chiama i suoi amici a passare le sue ultime ore leggendo insieme a lui), il rapporto con la madre morta sospeso tra rimozione e freddezza, il problema politico del controllo dei dati da parte delle big data companies, l’ammirazione per Goya, Wittgenstein e Kierkegaard, e molte altre cose ancora: lo story-telling  di Laurie Anderson appare progressivamente, più il film va avanti, come uno strumento sciamanico per raccontare e rappresentare l’amore e la sua perdita, la malattia, il dolore, la morte, i veri protagonisti del film. L’assemblaggio sfrenato di elementi disparati (storie, immagini, voce, suoni) diventa allora una ricerca di verità: la stratificazione, la narrazione infinita, l’accumulo di materiali possono portare ad avvicinarsi alla verità, molto più che il logos razionale su cui si basa l’Occidente.

Storie di fantasmi

L’estetica del frammento, utilizzata dall’ autrice, è la consapevole, umanistica accettazione delle indicibili contraddizioni di cui è impastata la esistenza dell’uomo, e la conseguente decisione di farsene carico con ironia e leggerezza. Anche quando i passaggi esistenziali  da affrontare sconfinano nell’indicibilità del dolore, della pena, della paura, come quando Anderson accenna ai tre giorni passati accanto a Lolabelle morente o ricorda di quando salvò i suoi due fratelli che stavano affogando nelle acque di un lago ghiacciato. Le immagini sfumate dei filmini di famiglia evocano spettri sfuocati di chi non c’è più, le parole leggere dette fuori campo dalla regista (in un italiano che, a dispetto della pronuncia spesso improbabile, suona dolcissimo e musicale) creano a loro volta un senso  di verità soffusa e indeterminata, più il risultato di un’emozione o di un accostamento che di una ricostruzione analitica.

E’ evidente che il fuori fuoco è la pietra angolare estetica di Heart of a dog: Anderson cita i fosfeni (“il cinema dei carcerati”), i treni come illusioni ottiche, la credenza religiosa tibetana secondo cui subito dopo la morte appaiono due luci, una vicina e una lontana, e si deve andare verso quella lontana…sono tutte metafore e simboli di come i fantasmi, per Laurie Anderson, abitino le nostre vite. Tre sono stati i fantasmi della mia vita – dice Laurie senza però indicarceli. E l’ esplicita citazione di Foster Wallace (Tutte le storie d’amore sono storie di fantasmi) ci porta a ritenere che questo film così eccentrico, così lieve, così sulla soglia tra realtà e immaginazione, parli principalmente di fantasmi. Il fantasma di Lolabelle, quello della madre, dell’amico morto. E quello di Lou Reed, che nel film appare pochi secondi, dentro il solito spezzone di cinema casalingo, a piedi nudi sulla spiaggia, mentre nella colonna sonora echeggia il suono così puro e vibrante delle campane tibetane. Un fantasma, anche lui, sospeso tra parola e memoria.

Tra minimalismo e Arvo Part

Come la voce di Laurie Anderson, anche la musica della colonna sonora è un flusso continuo, dall’inizio alla fine, di  suoni e di vibrazioni musicali, che per lo più vengono dai dischi pubblicati dalla musicista nel corso della sua quarantennale vita musicale. Anche qui si registra un’oscillazione tra il minimalismo digital-elettronico, tipico della dimensione  tecno-innovativa dell’artista, e certe parti di tonalismo, affidate agli archi e al pianoforte, che talvolta possono far ricordare certa musica di austero afflato religioso come quella di Arvo Part. 

La voce calda di Laurie

Ma in realtà la vera musicalità sta nella voce calda di Laurie, che racconta le sue storie nella nostra lingua. Scelta geniale, perché in sintonia con l’intero approccio dell’opera, come detto, di un out of focus che proprio nella imprecisione cerca di raggiungere un livello superiore di consapevolezza. E’ una voce che sa ancora esplorare i territori dello stupore infantile così come quelli dell’ironia e del doloroso ricordo: una voce che è la testimonianza forte dell’intuizione di Ludwig Wittgenstein, per cui I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo.  E’ il linguaggio che crea il mondo, e finché ci sarà una voce, come quella di Laurie Anderson, a raccontarci i nostri luoghi oscuri, la morte e il dolore saranno comunque elementi di un viaggio da narrare.

Per vedere il trailer di “Heart of a dog” clicca qui, nella scheda dedicata del catalogo pubblico di UAM.TV.

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