Da Sabra e Chatila ai genocidi di oggi, il silenzio del mondo civilizzato
- Redazione UAM.TV

- 16 set
- Tempo di lettura: 6 min
Dalle ombre del passato al grido dei popoli: memoria, genocidi e silenzi del mondo

Il 16 settembre 1982, in due campi profughi di Beirut, Sabra e Chatila, la storia si macchiò di uno dei più atroci crimini del XX secolo. Per tre giorni interi, milizie cristiano-maronite libanesi massacrarono centinaia, forse migliaia, di civili palestinesi: donne, bambini, anziani, uomini disarmati. Tutto questo avvenne sotto lo sguardo dell’esercito israeliano che circondava l’area e che rese possibile quell’orrore.
Non fu un incidente di guerra. Non fu un eccesso isolato. Fu un massacro pianificato e reso possibile da precise scelte politiche e militari. Le testimonianze raccontano di strade disseminate di cadaveri, di famiglie cancellate, di un silenzio tombale che calò dopo giorni di urla e pianti. Israele, pur non compiendo direttamente le uccisioni, permise l’accesso ai campi e non intervenne per fermare la carneficina. La Kahan Commission parlò di “responsabilità indiretta”, ma la verità storica resta incancellabile: senza la cornice dell’occupazione militare israeliana, quel massacro non sarebbe mai avvenuto.
Dal passato al presente: le ferite che non guariscono
Ricordare Sabra e Chatila non è un esercizio sterile di memoria. È un atto politico e morale. Perché la violenza di ieri alimenta la violenza di oggi, e l’impunità di allora ha aperto la strada a nuovi massacri.
Il 7 ottobre 2023, Hamas ha compiuto un pogrom barbaro contro civili israeliani: famiglie massacrate, bambini uccisi, vite spezzate in modo atroce. Un atto che non può e non deve essere giustificato, perché l’uccisione deliberata di innocenti non ha mai giustificazione. Quel giorno l’umanità ha perso ancora una volta se stessa.
Eppure, alla luce della storia, non si può fermare lo sguardo lì. Perché mentre condanniamo senza esitazione quel pogrom, dobbiamo con la stessa forza denunciare il genocidio che Israele sta compiendo oggi nei confronti del popolo palestinese. A Gaza, bombardamenti indiscriminati hanno ridotto interi quartieri in macerie, lasciando dietro di sé migliaia di morti civili, la maggior parte dei quali donne e bambini. In Cisgiordania, colonie illegali si espandono ogni giorno, con violenze sistematiche, espropri e vessazioni che mirano a cancellare la presenza palestinese.
Chi è colpevole di cosa?
Di fronte a questa spirale di sangue, è legittimo chiedersi: chi è colpevole, e chi no? La risposta non può ridursi a slogan politici o economici. Serve uno sguardo obiettivo, capace di leggere la storia nella sua interezza.
È colpevole Hamas, per aver scelto la via del terrorismo e dell’odio, rendendo vittime civili innocenti e condannando il proprio popolo a ulteriori rappresaglie.
È colpevole Israele, per decenni di occupazione, di apartheid, di massacri, che oggi sfociano in un genocidio sotto gli occhi del mondo.
Sono colpevoli le potenze internazionali che hanno chiuso gli occhi, scegliendo il calcolo geopolitico e il profitto economico invece della giustizia.
E le vittime? Le vittime sono i popoli. I bambini israeliani del 7 ottobre. I bambini palestinesi sepolti sotto le macerie di Gaza. Le madri che piangono, da una parte e dall’altra del muro. Gli anziani costretti all’esilio o al silenzio.
Il silenzio complice del mondo “civilizzato”
C’è però un’altra responsabilità, più diffusa e ancora più ipocrita: quella dell’intero mondo cosiddetto “civilizzato”. L’Occidente, con i suoi proclami di libertà e diritti umani, non ha mai saputo — o voluto — andare oltre le condanne formali. Freddi comunicati, dichiarazioni di circostanza, appelli rituali alle “parti in conflitto”: parole che non hanno mai prodotto nulla di concreto.
Ma non è solo l’Occidente. Anche l’Oriente, la Cina, la Russia, le grandi potenze asiatiche e persino il Giappone si limitano a proclamazioni di principio, piegate ai propri interessi economici e strategici. Tutti condannano, tutti parlano di pace, nessuno agisce davvero.
E come non citare la tragedia della guerra in Ucraina, dove la Russia porta avanti da anni un’aggressione devastante che ha già distrutto città, seminato morte e costretto milioni di persone a fuggire? Un conflitto che ha diviso il mondo in blocchi contrapposti, ognuno più preoccupato dei propri equilibri geopolitici che della sorte delle vittime.
E poi ci sono le nazioni arabe, che troppo spesso hanno preferito la retorica vuota alla responsabilità concreta. Da un lato si ergono a difensori della causa palestinese, dall’altro chiudono gli occhi di fronte alle violenze di Hamas e dei tanti gruppi terroristici di matrice islamista. Una doppia ipocrisia che non salva vite, non ferma la spirale del sangue, ma la alimenta.
Ed eccoci al cuore del problema: le religioni. Perché ancora una volta, come in tante altre epoche, è nel nome di Dio che si compiono le peggiori atrocità. Che si chiami Allah, Yahweh o qualunque altro nome, la religione si trasforma troppo spesso nel pretesto per il potere, la violenza, l’annientamento dell’altro. È la radice avvelenata che continua a generare odio invece che compassione, dominio invece che liberazione.
E non dimentichiamo che oggi abbiamo parlato “solo” di Medio Oriente e di Occidente. Ma i conflitti e le tensioni alimentate dagli stessi errori e orrori si contano a centinaia in tutte le zone e culture del pianeta.
In Asia, il Pakistan vive da decenni sull’orlo del collasso, stretto fra instabilità politica, terrorismo interno e tensioni con l’India sul Kashmir, che resta una delle polveriere più pericolose del mondo. Il Nepal, pur pacificato formalmente dopo la guerra civile, è ancora segnato da forti divisioni etniche e sociali che esplodono periodicamente in scontri e instabilità. La Cina, dal canto suo, è una superpotenza che esercita un controllo ferreo sulla popolazione: in Tibet e nello Xinjiang milioni di persone subiscono repressione culturale e religiosa; a Hong Kong ogni forma di dissenso è stata silenziata; e nello stretto di Taiwan la tensione militare cresce di anno in anno, minacciando la stabilità regionale e globale. E poi c’è la penisola coreana, dove Nord e Sud vivono in una contrapposizione costante che rischia sempre di degenerare in conflitto aperto.
In Africa, guerre civili, colpi di stato e carestie si intrecciano con lo sfruttamento delle risorse naturali: dal Sudan dilaniato dalla guerra interna all’Etiopia segnata dal conflitto nel Tigray, dal Sahel logorato dal terrorismo e dai golpe militari alla Repubblica Democratica del Congo devastata da decenni di violenze.
In Sud America, il Venezuela vive una delle crisi economiche e politiche più gravi della sua storia, con milioni di profughi in fuga. In Colombia, la pace con le FARC è fragile e minacciata da nuove bande armate. In Brasile e in Amazzonia le popolazioni indigene subiscono soprusi e devastazioni ambientali. In Perù e Cile, le tensioni sociali ed economiche esplodono ciclicamente, rivelando quanto le disuguaglianze restino profonde e insanate.
La lezione di Sabra e Chatila non è locale: è universale.
Questo silenzio, questa inazione, questa ipocrisia collettiva — da Occidente a Oriente, da Nord a Sud, da governi laici a governi religiosi — è un atto di complicità. Non si tratta di “neutralità”. È un tradimento dell’umanità.
Oltre i confini, verso una coscienza universale
Ogni massacro dimenticato prepara il terreno a un altro massacro. Ogni silenzio colpevole diventa complicità. Ogni condanna formale non seguita da azioni concrete è solo un alibi per continuare come prima.
La verità è che i confini, le bandiere, le religioni, i blocchi di potere sono solo invenzioni umane. Non esistono nel cuore che batte, nel pianto di un bambino, nel respiro di chi chiede solo di vivere in pace.
La memoria di Sabra e Chatila, come quella di Gaza, del Tigray, del Kashmir o dell’Amazzonia, ci chiede una sola cosa: svegliarci dal torpore e riconoscere che l’umanità è una sola. E che quando un uomo uccide un altro uomo, ovunque nel mondo, tutti noi siamo feriti.
Non basta più indignarsi. Non basta più condividere slogan o bandiere. Serve una coscienza nuova, universale, che metta al centro la dignità di ogni vita, che impari a dire no a ogni potere che usa il sangue come moneta di scambio, che rifiuti le religioni quando diventano strumenti di odio e non di compassione.
Forse è utopia. Ma senza utopia restiamo prigionieri della barbarie.E allora, che ognuno di noi, nel suo piccolo, diventi memoria viva e voce di chi non ha più voce. Solo così potremo spezzare il ciclo dell’orrore e camminare, finalmente, verso un mondo diverso.
Citazione d’autore
“La memoria è l’unico vaccino contro la ripetizione dell’orrore.”
Primo Levi
Consiglio consapevole
Non fermarti mai alla superficie delle notizie. Studia la storia, ascolta le voci delle vittime da entrambe le parti, rifiuta le semplificazioni. Ricorda che anche i silenzi e le omissioni hanno conseguenze: chiedi conto ai governi, a Est come a Ovest, così come al mondo arabo e sudamericano, di quello che non fanno. E soprattutto, rifletti sul potere ambiguo delle religioni: strumenti che potrebbero unire ma che troppo spesso dividono e armano. Solo uno sguardo lucido e completo può permetterci di giudicare con coscienza e costruire un futuro diverso, in cui la dignità di ogni vita sia al centro.






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