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Litigare bene: l'arte dimenticata del conflitto consapevole

  • Immagine del redattore: Redazione UAM.TV
    Redazione UAM.TV
  • 8 ago
  • Tempo di lettura: 5 min

Quando anche lo scontro può diventare uno strumento di crescita interiore e connessione profonda

Litigare bene: l'arte dimenticata del conflitto consapevole


Viviamo in un’epoca in cui ci si illude che la felicità sia sinonimo di assenza di attriti. Soprattutto nelle relazioni. Se c’è armonia, tutto va bene. Se c’è disaccordo, allora c’è qualcosa che non funziona.

Ma è davvero così?

Nella nostra cultura moderna, litigare è ancora vissuto come un tabù. Si teme il giudizio, si teme di sbagliare, si teme di rovinare tutto. E allora si tace. Si rimanda. Si accumula. Fino a esplodere.

Ma forse, più che evitare i litigi, dovremmo imparare a litigare meglio. Con coscienza. Con amore. Con presenza.

Perché il conflitto, se affrontato nel giusto modo, può essere una forma altissima di comunicazione.


Il conflitto è naturale. L’evasione è pericolosa.


Ogni coppia, anche la più solida e affiatata, prima o poi si trova a fare i conti con lo scontro. Non esistono relazioni senza attrito. E questo non è un segno di fallimento.

È, anzi, la testimonianza che l’amore è vivo. Che ci si mette in gioco. Che si cerca un dialogo, anche se faticoso.


I motivi per cui si litiga sono spesso molto meno superficiali di quanto appaiano:


  • Un tono di voce che riattiva ferite antiche.

  • Una dimenticanza che scatena insicurezze.

  • Una parola detta male, che colpisce là dove fa più male.


Tutte occasioni in cui emerge ciò che resta nascosto nel quotidiano: bisogni non espressi, desideri frustrati, memorie inconsce, paure profonde.

Chi evita il conflitto a ogni costo, in realtà evita la verità.

E chi accumula senza esprimere, prima o poi scoppia. In modi spesso distruttivi.

Il punto non è mai evitare il litigio.

Il punto è: cosa ce ne facciamo? Come lo attraversiamo? Come ne usciamo?


Il problema non è litigare. È come lo si fa.


C’è un modo di litigare che distrugge. E uno che costruisce.

Nel primo, prevale la rabbia, il rancore, la volontà di ferire. Le parole diventano armi. Si interrompe l’ascolto. Si cade in automatismi infantili.

Nel secondo, invece, c’è la scelta di stare nel conflitto senza perdere la connessione umana. Anche se si è arrabbiati. Anche se ci si sente delusi. Anche se si è stanchi e feriti.


Litigare bene richiede:


  • Presenza: saper riconoscere quando si è dominati dall’ego, e non dalla verità.

  • Responsabilità: non accusare l’altro per ogni malessere, ma interrogarsi su cosa si muove dentro di sé.

  • Empatia: cercare di capire cosa prova l’altro, anche quando ci sembra incomprensibile.


La maggior parte dei litigi non nasce per ciò che viene detto, ma per come viene detto.

E spesso, dietro la rabbia, si nasconde un bisogno inascoltato: "Voglio che tu mi veda", "Ho bisogno di sentirmi amato", "Temo di non essere abbastanza per te".

Quando impariamo a decifrare quel bisogno, la dinamica cambia. Il nemico non è più l’altro. Il nemico è il fraintendimento.

E allora il conflitto diventa un ponte, non una frattura.


Smettere di avere ragione. Iniziare a capirsi.


Una delle trappole più insidiose del litigio è il bisogno di avere ragione.

Quel fuoco che ci brucia dentro e ci spinge a voler dimostrare che siamo noi quelli giusti. Che l’altro ha sbagliato. Che il torto non ci appartiene.

Ma cosa succede se spostiamo lo sguardo?

Se invece di voler vincere, decidiamo di comprendere?

Se lasciamo cadere l’armatura delle nostre certezze e ci chiediamo: “Cosa c’è di vero, anche in quello che dice l’altro?”

Avere ragione può dare una soddisfazione temporanea. Capirsi può salvare una relazione.

Quando uno dei due rinuncia alla guerra delle prove, delle citazioni, dei “te l’avevo detto”, si apre uno spazio nuovo. Un campo neutro, dove la vulnerabilità può affacciarsi senza paura.

E lì può nascere il vero incontro.

Smettere di avere ragione non significa rinunciare a se stessi.

Significa scegliere di non fare del conflitto una gara, ma una possibilità.

Di uscire dalla logica del giusto contro sbagliato, e abbracciare quella del diverso che può dialogare.

In fondo, in una coppia, vincere da soli è sempre una sconfitta a metà.


L’antica saggezza e i nuovi strumenti


In molte culture antiche, il conflitto era vissuto come parte integrante della vita di relazione.

Non lo si rimuoveva. Lo si attraversava. Insieme.

Nelle tribù africane, ad esempio, il litigio tra due persone diventava un fatto comunitario: la cerchia degli anziani ascoltava, mediatava, e aiutava le parti a ritrovare l’equilibrio. Non c’era punizione, ma reintegrazione.

Nel taoismo, si dice che l’attrito tra Yin e Yang è ciò che genera il mondo. Non un male, ma una condizione naturale. L’equilibrio non è assenza di tensione, ma coesistenza armoniosa delle forze opposte.

Nella tradizione buddhista, si insegna ad osservare la rabbia con distacco, come un visitatore temporaneo della mente. Non sopprimerla, ma non identificarsi con essa.

Più recentemente, la Comunicazione Nonviolenta (CNV) ci offre strumenti pratici per trasformare il linguaggio del conflitto in linguaggio del cuore.

Parlare in termini di bisogni e sentimenti, invece che di accuse e giudizi.

Imparare a chiedere, invece che pretendere.

Offrire empatia, invece che correzioni.

È una pratica. Non una magia. Richiede impegno, esercizio, volontà.

Ma i risultati sono profondi.


Il coraggio del perdono


Dopo ogni tempesta, resta un’eco.

E in quella eco possiamo scegliere cosa far germogliare.

Il perdono è spesso confuso con la debolezza. Ma in realtà è un atto di potere spirituale. È scegliere di non restare imprigionati nella ferita. È lasciare andare il bisogno di avere ragione. È fare spazio alla vulnerabilità dell’altro, così simile alla nostra.

Perdonare non significa dimenticare. Significa integrare. Portare nel cuore anche ciò che ha fatto male.

E trasformarlo in qualcosa di nuovo. Di più forte. Di più vero.


Una coppia che cresce… litiga


L’amore maturo non è fatto solo di momenti felici.

È fatto di verità condivise. Di sguardi che restano, anche nel buio.

Di mani che si tendono, anche dopo aver sbattuto la porta.


Le coppie che non litigano mai spesso nascondono dinamiche pericolose:


  • Una delle due parti ha rinunciato a esprimersi.

  • C’è paura di perdere l’altro.

  • O semplicemente non ci si confronta mai in profondità.


In realtà, litigare è un segno di intimità.

Perché mostra che si ha il coraggio di essere se stessi.

E di affrontare l’altro, non come un ideale da compiacere, ma come un essere umano da amare anche nei suoi momenti peggiori.


La via consapevole del conflitto


E se il conflitto fosse una tappa necessaria del viaggio interiore a due?

Una soglia da attraversare per andare oltre le maschere?

Un passaggio alchemico, dove l’io e il tu si fondono in un noi più autentico?

Litigare bene è un’arte.

Una delle più dimenticate.

Ma anche una delle più preziose.

Significa restare umani. Restare presenti. Restare aperti.

Anche quando sembra più facile chiudere.

Anche quando il dolore ci spinge a scappare.

In un’epoca che ci vende l’amore come favola senza sbavature, forse è tempo di recuperare la bellezza dell’imperfezione, e la forza del cuore che sa dire: “Anche se fa male, io ci sono”.


Citazione d’autore

“L’amore è una trama sottile di ferite e carezze. Ciò che resta, è ciò che si è scelto di non distruggere.”

Frida Kahlo (attribuita)

Consiglio consapevole

La prossima volta che senti il conflitto emergere, prova questo: fai un passo indietro, fisicamente e mentalmente. Inspira profondamente. Porta la mano sul cuore. E chiediti: “Cosa sto cercando davvero? E come posso dirlo con amore?”.

A volte, basta questo per trasformare una battaglia in un abbraccio.


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