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Berlino, 1989: il giorno in cui cadde il cemento

  • Immagine del redattore: Redazione UAM.TV
    Redazione UAM.TV
  • 9 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

I muri che portiamo dentro

Berlino, 1989: il giorno in cui cadde il cemento

C’erano mani che si tendevano, picconi che battevano, lacrime che scendevano insieme alla polvere.

Era il 9 novembre 1989. Il Muro di Berlino stava cadendo, pezzo dopo pezzo, nel suono liberatorio di un popolo che tornava a respirare insieme.

Non era solo un evento politico: era un risveglio collettivo.

Perché quel muro non divideva soltanto una città; divideva la fiducia dall’angoscia, la speranza dalla paura, l’uomo dall’uomo.

In quelle ore, tra la notte e l’alba, si frantumò qualcosa di più del cemento: si incrinò una mentalità.

Quella che crede che la libertà dell’uno debba sempre escludere quella dell’altro.


I muri non nascono nei cantieri


Ogni muro ha un’origine invisibile. Prima che diventi calcestruzzo, nasce come pensiero. Nasce da una paura, da un sospetto, da una parola non detta che diventa distanza.

È facile immaginare i muri come barriere fisiche, ma quelli più resistenti sono costruiti nella mente e nel cuore: i muri del pregiudizio, della diffidenza, del risentimento.

Sono invisibili, ma ci separano con la stessa precisione di un confine sorvegliato.

Li alziamo ogni volta che etichettiamo qualcuno, che smettiamo di ascoltare, che confondiamo la fermezza con la chiusura.

Eppure, non ci rendiamo conto che il muro che costruiamo per proteggerci è spesso lo stesso che ci imprigiona.


Muri digitali


Nell’epoca dei social, i muri hanno cambiato forma, ma non sostanza.

Oggi li costruiamo con i commenti, i giudizi, le parole lanciate come pietre. Dietro uno schermo è più facile scavallare i limiti del rispetto, attraversare con leggerezza il confine dell’empatia, senza accorgerci che ogni frase che ferisce aggiunge un mattone alla muraglia dell’incomprensione collettiva.

Ma c’è un livello ancora più sottile e insidioso. I nostri comportamenti online non sono mai del tutto spontanei. Sono indirizzati, spinti, orientati da algoritmi che imparano dalle nostre emozioni più forti — paura, rabbia, indignazione — e le amplificano.

Ci mostrano ciò che ci divide, ciò che ci fa reagire, ciò che ci tiene incollati allo schermo. Perché l’attenzione è la nuova moneta del potere, e la paura ne è la valuta più preziosa.

Dietro ogni algoritmo c’è una volontà precisa: mantenere alta la tensione e bassa la vibrazione.

Un’umanità impaurita, stanca, costantemente bombardata da messaggi di pericolo e crisi, è più docile, più prevedibile, più facilmente controllabile. Quando le nostre vibrazioni scendono, si abbassa anche la nostra capacità di discernere, di provare empatia, di vedere con chiarezza. E così i muri non solo si alzano, ma diventano invisibili: ci circondano dall’interno.

Ed è qui che nasce la nostra più grande responsabilità.

Essere consapevoli, vigilare, scegliere cosa nutrire.

Ogni volta che reagiamo con paura, alimentiamo il sistema che ci vuole spaventati. Ogni volta che scegliamo la presenza, la gentilezza o il silenzio, creiamo una crepa nel muro del controllo.


I muri che scavalliamo


Non costruiamo solo barriere: spesso ne superiamo di invisibili. Ogni volta che reagiamo con rabbia a uno sconosciuto online, ogni volta che ridicolizziamo chi non la pensa come noi, stiamo scavalcando il muro del rispetto.

Lo facciamo credendo di difendere un’idea, ma in realtà la svuotiamo. Perché la libertà non vive nel rumore, ma nella misura.Non serve ergersi sopra gli altri per sentirsi liberi: basta smettere di confonderli con i nostri nemici.


Abbattere non basta: serve costruire ponti


I berlinesi che quella notte si abbracciarono tra le macerie sapevano che non bastava demolire: bisognava ricucire. Ogni muro abbattuto apre uno spazio vuoto, e ciò che scegliamo di metterci dentro fa la differenza. Un muro caduto non è libertà in sé: è la possibilità della libertà.

Serve ascolto, pazienza, memoria. Serve la volontà di non alzare nuovi muri appena il vento cambia direzione.

Forse la vera sfida non è distruggere, ma imparare a convivere senza doverci dividere. A non avere paura dell’altro, ma neppure di noi stessi.


I muri dentro di noi


Esistono muri che nessun piccone può abbattere: quelli interiori. Sono fatti di silenzi, di orgoglio, di ferite mai guarite. Eppure, come la storia ci insegna, anche il cemento più duro si sgretola se vi passa abbastanza luce.

La consapevolezza è quella luce.Quando smettiamo di identificarci con le nostre paure, quando riconosciamo che anche chi ci fa male agisce spesso per difendersi, un frammento cade.

E a poco a poco, dentro di noi, si apre un varco verso la compassione.


Berlino, ancora


Oggi il Muro non c’è più, ma le sue cicatrici sono diventate un museo all’aperto.

I turisti camminano lungo le sue tracce, leggono i nomi, osservano i graffiti che raccontano speranza.

Forse è questo il destino di ogni muro: ricordarci quanto costa costruirlo, e quanto libera abbatterlo.

E se imparassimo a farlo non solo tra le città, ma tra le persone, forse scopriremmo che la libertà non è un traguardo politico, ma un’evoluzione spirituale.


Citazione d’autore

“Costruire muri è il modo più facile di sentirsi forti. Ma serve molto più coraggio per restare aperti.”

Carl Gustav Jung

Consiglio consapevole

Sii curioso di te stesso come lo sei del mondo. Prima di credere a un’informazione, prima di reagire a un commento, chiediti da dove nasce l’emozione che provi. Forse non sei tu a scegliere, ma qualcuno che ti spinge a reagire. Eppure, proprio in quel momento, puoi scegliere di essere libero: fermarti, respirare, non alimentare il muro, ma aprire lo spazio del dialogo.

La paura abbassa la vibrazione, la consapevolezza la innalza.

E quando la tua vibrazione sale, nessun muro — digitale o mentale — può più trattenerti.


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