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Adozione della Convenzione ONU sul genocidio

  • Immagine del redattore: Redazione UAM.TV
    Redazione UAM.TV
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 3 min

Quando l’umanità provò a darsi un limite morale

Adozione della Convenzione ONU sul genocidio

Un mondo ferito che cerca parole nuove


Il 9 dicembre 1948, a Parigi, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Il giorno successivo sarebbe stata proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Due atti ravvicinati, nati dallo stesso trauma collettivo e dalla stessa urgenza morale: impedire che l’orrore assoluto del Novecento potesse ripetersi senza nome, senza legge, senza responsabilità.

La parola “genocidio” era nuova. Era stata coniata pochi anni prima dal giurista Raphael Lemkin, che aveva perso gran parte della propria famiglia durante la Shoah. Non si trattava solo di una definizione giuridica, ma di un tentativo umano e disperato di dare un nome al male estremo. Chiamare qualcosa per nome significa renderla visibile. E solo ciò che è visibile può, forse, essere fermato.


La nascita di un concetto che supera gli Stati


La genesi della Convenzione è attraversata da una tensione profonda. Da un lato il bisogno di fissare un limite invalicabile. Dall’altro la prudenza, talvolta il timore, degli Stati che vedevano in quella norma una possibile intrusione nella propria sovranità.

Il genocidio viene definito come l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Un punto cruciale, perché sposta l’attenzione dall’atto materiale alla volontà che lo guida. Non è solo ciò che accade a essere giudicato, ma il disegno che lo muove. In questa scelta si nasconde uno dei passaggi più radicali del diritto internazionale moderno.


Un principio rivoluzionario nel diritto internazionale


L’importanza storica della Convenzione risiede proprio in questo salto concettuale. Per la prima volta viene affermato che esistono crimini così gravi da superare i confini nazionali. Non importa chi li commette, né dove avvengono. Sono crimini contro l’umanità nel suo insieme.

È una rottura netta con la logica che aveva dominato per secoli, quella dell’assoluta autonomia degli Stati. Il diritto internazionale inizia così a interrogarsi non solo su ciò che è legittimo, ma su ciò che è umano.


L’intento genocidario e il limite della prova


Fin dall’inizio, però, l’applicazione della Convenzione si è rivelata complessa. Il nodo principale sta nella difficoltà di dimostrare l’intento genocidario, elemento centrale ma spesso invisibile. Le decisioni politiche, i linguaggi ufficiali, le strategie militari raramente si dichiarano apertamente per ciò che sono.

La violenza può essere giustificata come necessità, sicurezza, difesa. E il confine tra genocidio, crimine di guerra e crimine contro l’umanità diventa un territorio ambiguo, dove la giustizia fatica a muoversi con chiarezza.


Il dovere di prevenire e il silenzio della politica


Un altro punto cruciale, spesso trascurato, riguarda l’obbligo di prevenzione. La Convenzione non nasce solo per punire ciò che è già accaduto, ma per impedire che accada. Ma prevenire significa agire prima, riconoscere i segnali, assumersi responsabilità politiche scomode.

È qui che il diritto mostra tutta la sua fragilità. Senza una volontà condivisa, senza il coraggio di intervenire quando la situazione è ancora incerta, le norme restano parole scritte, richiamate a posteriori, quando il danno è ormai irreversibile.


Una parola che ritorna nel presente


Nel corso dei decenni, la Convenzione è diventata strumento di giudizio, ma anche di conflitto interpretativo. Ogni volta che il mondo assiste a violenze di massa, a popolazioni colpite sistematicamente, quella parola riemerge. Genocidio.

È una parola pesante, che molti evitano di pronunciare. Perché nominarla implica conseguenze, obblighi, prese di posizione. E così, spesso, resta sospesa tra indignazione morale e prudenza politica.


Una domanda ancora aperta


Legare la Convenzione all’attualità non significa schierarsi, ma osservare una difficoltà strutturale che continua a ripetersi. Il diritto c’è. Le definizioni esistono. Gli strumenti anche. Eppure la comunità internazionale oscilla ancora tra dichiarazioni solenni e immobilismo.

Forse il valore più profondo della Convenzione del 9 dicembre 1948 sta proprio qui. Non nell’illusione di aver risolto il problema del male, ma nell’aver posto una domanda permanente.

Cosa significa davvero dire “mai più”? E quanto siamo disposti a farlo valere, prima che sia troppo tardi.


Citazione d’autore

“Il grande crimine non è compiuto da coloro che infrangono le leggi, ma da coloro che obbediscono agli ordini.”

Hannah Arendt

Consiglio consapevole

Quando incontri parole scomode e divisive, prova a non scartarle subito. Chiediti cosa le rende difficili da pronunciare. Spesso è proprio lì che comincia la responsabilità del pensiero.


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