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7 ottobre: memoria, ferite e speranza

  • Immagine del redattore: Redazione UAM.TV
    Redazione UAM.TV
  • 7 ott
  • Tempo di lettura: 5 min

Dall’orrore del massacro alla necessità di un nuovo linguaggio per la pace

7 ottobre: memoria, ferite e speranza

Il giorno in cui il mondo trattenne il fiato


Il 7 ottobre 2023 Hamas lanciò un attacco su larga scala contro Israele. Oltre 1.200 persone furono uccise, centinaia rapite, intere famiglie distrutte. Fu un massacro, un atto terroristico inaccettabile che ferì non solo Israele ma la coscienza dell’umanità intera.

L’operazione, chiamata “Diluvio al-Aqṣā”, vide il suo momento più atroce nel massacro del festival musicale Supernova, dove centinaia di civili disarmati vennero uccisi o rapiti.

Nessuna causa può giustificare un simile orrore.

Ma ricordare quel giorno non significa ignorare ciò che lo ha preceduto.

Il 7 ottobre è stato l’esplosione di un dolore antico, l’effetto di decenni di oppressione, occupazione e umiliazione, di un conflitto che ha trasformato ogni bambino in una potenziale vittima e ogni adulto in un potenziale carnefice.


Il tappo che è saltato


Da decenni, il popolo palestinese vive sotto occupazione, privato di libertà di movimento, di accesso alle risorse, di prospettive economiche.

Insediamenti illegali, confische di terre, check-point, bombardamenti periodici, blocchi umanitari: tutto questo ha creato un sistema di oppressione e disperazione.

Molti organismi internazionali hanno denunciato violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei territori occupati: la negazione dell’acqua, la demolizione di case, la detenzione di minori, la punizione collettiva.

Tutto in nome della sicurezza.

E così, il 7 ottobre, quel tappo è saltato. Hamas ha agito con la brutalità di chi non ha più speranza né misura.

Ma la violenza cieca non libera: distrugge.


Da diritto alla difesa a vendetta


Il trauma dell’attacco ha spinto Israele a reagire con una forza devastante. Bombardamenti incessanti su Gaza, assedi, interruzioni di acqua, elettricità, carburante.

Le immagini dei bambini intrappolati sotto le macerie, dei medici che operano senza anestesia, delle famiglie costrette a bere acqua sporca, sono entrate nella memoria collettiva del mondo.

Quel che era cominciato come diritto alla difesa si è trasformato in vendetta, e la vendetta in un crimine contro l’umanità e genocidio.

Organismi internazionali, tra cui l’ONU, Amnesty International e Human Rights Watch, hanno denunciato gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, fino ad arrivare ad accusare Israele di aver commesso atti che configurano crimini di guerra e genocidio.

La difesa della vita non può diventare distruzione della vita.


Doppia intervista immaginaria: due giovani, una sola umanità


Lei si chiama Yael, 18 anni, vive a Tel Aviv.

Lui è Samir, 19 anni, è cresciuto a Ramallah.

Entrambi studiano in una scuola internazionale dove israeliani e palestinesi condividono lezioni, sogni e domande.


Yael: “Il 7 ottobre ho pianto per le vittime del mio Paese. Poi ho visto le immagini di Gaza, i bambini sotto le macerie, e ho pianto di nuovo. Non riesco più a capire chi sta difendendo chi. So solo che non voglio vivere nella paura.”


Samir: “Ogni volta che cade una bomba, qualcuno qui perde una madre, un fratello, una casa. Ma anche io non voglio vivere nell’odio. Vorrei che gli israeliani sapessero che non siamo i loro nemici. Siamo ragazzi come loro, con la stessa voglia di amare e respirare.”


Yael: “A scuola mi hanno insegnato che la pace non è un’idea astratta, ma un gesto quotidiano. È guardare Samir negli occhi e non vedere un nemico.”


Samir: “Io credo che la pace cominci quando smetti di pensare di avere ragione. Solo così puoi ascoltare davvero.”



Le loro voci non sono inventate: sono l’eco autentica di centinaia di giovani israeliani e palestinesi che, nonostante tutto, continuano a sognare un futuro condiviso.


“Humans of EMIS”: dove nasce la speranza



Queste parole potrebbero appartenere a uno qualsiasi dei protagonisti di “Humans of EMIS”, un documentario disponibile su UAM.TV che racconta la vita di otto ragazzi di una scuola internazionale a Tel Aviv fondata sui valori della cooperazione e della pace.

Il film, intimo e luminoso, mostra le loro prospettive su identità, conflitto e convivenza.

È un mosaico di storie e di emozioni, ma anche una lezione di umanità: ci insegna che solo accettando la vulnerabilità possiamo costruire ponti tra culture diverse.

Mentre il mondo esterno continua a ripetere i cicli dell’odio, questi ragazzi ci ricordano che apparteniamo tutti alla stessa famiglia globale: Homo sapiens.


Condannare entrambi, ma riconoscere le cause


Condannare Hamas per l’orrore del 7 ottobre è doveroso.

Condannare Israele per la devastazione di Gaza è altrettanto necessario.

Ma comprendere non significa giustificare. Significa riconoscere che la violenza non nasce nel vuoto, ma in decenni di ingiustizie e disperazioni. Solo quando guarderemo in faccia tutte le responsabilità — storiche, politiche e morali — potremo parlare davvero di pace.


La speranza come atto politico


La pace non è una tregua: è un percorso. Richiede ascolto, compromesso, coraggio. E oggi quel coraggio lo troviamo più nei giovani che nei governi. Nei gesti quotidiani di chi sceglie di non odiare, di chi tende la mano anche quando ha perso tutto.

Come dice Yael: “Non voglio più vivere nella paura.” Come aggiunge Samir: “La pace comincia quando smetti di voler avere ragione.”

Sono parole che dovremmo scrivere sui muri di ogni città del mondo.


Le piazze del mondo si riempiono di voce


Negli ultimi mesi, milioni di persone in ogni continente sono scese in strada per chiedere la fine delle ostilità, la liberazione degli ostaggi e la protezione dei civili. Da Londra a New York, da Roma a Parigi, da Amman a Buenos Aires, le piazze si sono trasformate in un’unica, immensa invocazione di umanità. Cartelli, bandiere, preghiere, canti e silenzi condivisi hanno unito popoli diversi sotto un’unica parola: pace.

Queste manifestazioni popolari, spontanee e trasversali, dimostrano che la coscienza collettiva sta cambiando. Che l’opinione pubblica mondiale non accetta più il linguaggio della guerra come unica risposta. E che, nonostante la politica continui a restare impantanata, i cittadini del pianeta stanno già tracciando la strada verso una pace reale, dal basso.


Conclusione


Ogni anno, il 7 ottobre ci ricorda quanto sottile sia la linea che separa la giustizia dalla vendetta, la memoria dalla manipolazione, la difesa dal massacro. Ma anche che, in mezzo alle macerie, esiste ancora chi costruisce ponti.

Non basta dire “mai più”: bisogna agire perché davvero non accada più.

E questo significa ascoltare, comprendere, riconoscere l’altro come parte di sé.

Solo così, un giorno, il Medio Oriente potrà smettere di essere sinonimo di guerra e diventare, finalmente, una terra di pace.


Citazione d’autore

“La pace non è un sogno, ma un compito che richiede coraggio ogni giorno.”

Albert Schweitzer

Consiglio consapevole

Spegni le notizie per un momento e ascolta le voci più giovani di questo mondo. Chi ha meno paura di perdere, spesso ha più coraggio di immaginare un domani diverso.


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