4 luglio. Indipendenza o Genocidio? Il vero volto dell’America
- Redazione UAM.TV
- 4 lug
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Dietro la festa americana, un genocidio dimenticato e un imperialismo mai finito

4 luglio: l’Indipendenza dei Forti contro i Giusti
Un giorno di festa fondato su una menzogna storica.
Ogni 4 luglio, negli Stati Uniti, le famiglie accendono barbecue, i cieli si colorano di fuochi d’artificio e le televisioni mandano in onda inni patriottici. È il giorno dell’Independence Day, la celebrazione dell’indipendenza dalla Corona britannica, firmata nel 1776 con la Dichiarazione di Thomas Jefferson. Un testo che inneggia alla libertà, all’uguaglianza e al diritto alla felicità. Parole solenni. Parole vuote. Parole scritte con inchiostro e sangue.
Indipendenza da chi?
La retorica americana racconta la gloriosa nascita di una nazione ribelle, coraggiosa, desiderosa di autodeterminazione. Ma quella “indipendenza” fu solo l’inizio di un nuovo ciclo di dominio, non la liberazione da un impero, ma la nascita di uno nuovo. Perché nel mentre che si scrollavano di dosso l’autorità britannica, i coloni firmatari della Dichiarazione non esitavano a sterminare sistematicamente le nazioni native, a espellerle dalle loro terre, a rinchiuderle in riserve, a “civilizzarle” con scuole, missioni e deportazioni. Così, mentre si parlava di “diritti inalienabili”, si assassinava chi quei diritti li incarnava nella propria armonia con la natura.
La terra della libertà, o dell’esproprio?
Ogni centimetro dell’attuale territorio degli Stati Uniti è stato rubato con la forza, in barba a trattati e promesse. Intere culture - Cherokee, Sioux, Apache, Navajo, Comanche - sono state annientate o profondamente mutilate. E quando i nativi si ribellavano, venivano etichettati come “selvaggi” o “terroristi”.
La verità è che l’America è nata sulla menzogna della libertà, poggiata su schiene spezzate, su campi intrisi di sangue, su genocidi negati e rimossi dalla coscienza collettiva.
“All men are created equal”... davvero?
Nel 1776, mentre Jefferson scriveva queste parole, possedeva centinaia di schiavi. La nuova nazione si fondava sì sull’uguaglianza, ma solo tra uomini bianchi, proprietari, europei.
Gli altri?
Gli africani deportati in catene e venduti nei mercati.
Le donne, ridotte a proprietà dei mariti.
I nativi, considerati ostacoli da eliminare.
Gli ispanici, i cinesi, gli irlandesi, i “diversi”: sempre ultimi, sempre utili ma esclusi.
Eppure oggi, ancora oggi, si canta “land of the free” con la mano sul cuore, come se nulla fosse.
Il paradosso della memoria
Mentre gli Stati Uniti si presentano come difensori globali della libertà, si rifiutano di fare i conti con la propria origine coloniale e criminale. Non c’è un “Giorno della Memoria” per Wounded Knee, per le Trail of Tears, per Sand Creek. Le statue celebrano i generali, non gli sciamani. Le scuole parlano di Pionieri, non di profughi. La storia americana è stata riscritta dai vincitori, che si sono autoassolti prima ancora di essere accusati.
Una festa che offende
Il 4 luglio è una celebrazione arrogante. Un inno alla prepotenza. È la festa dell’indipendenza di un popolo che ha negato e cancellato l’indipendenza di decine di altri. È un’autocelebrazione fondata sulla rimozione storica, sull’imperialismo morale, sull’idea tossica che la libertà valga solo per chi ha i mezzi per imporsi.
Chi festeggia davvero il 4 luglio? Chi ha perso tutto? Chi ancora oggi vive in riserve senza acqua potabile? Chi è stato ridotto al silenzio, alla caricatura folkloristica, al cliché da film western?
Oppure festeggia solo chi ha vinto. Chi ha occupato. Chi ha scritto la storia con la polvere da sparo e ora pretende applausi.
La democrazia a stelle e strisce... sganciata dal cielo
L’ipocrisia del 4 luglio non si esaurisce nel passato: continua a brillare, come un drone armato, nei cieli del presente. Gli Stati Uniti, eredi e prosecutori di quell’indipendenza distorta, hanno costruito il loro potere globale su una contraddizione intollerabile: esportare la democrazia con le bombe.
Dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria, il copione è sempre lo stesso: si entra per “liberare”, si destabilizza per “costruire”, si saccheggia per “difendere i valori occidentali”. E quando non bastano i raid aerei, si interviene con sanzioni, golpe pilotati, campagne mediatiche.
Chi ha coniato l’espressione "missione di pace" per una guerra preventiva, aveva già scritto il finale: ogni crimine può essere giustificato, se lo commette chi si ritiene moralmente superiore. In nome della libertà, si occupano paesi sovrani. In nome dei diritti umani, si armano regimi amici. In nome della giustizia, si fanno a pezzi intere popolazioni.
La democrazia americana, oggi, non è un faro, ma un riflettore accecante puntato addosso a chi non si allinea. Eppure, anche mentre il mondo brucia, Washington festeggia. Con stelle, strisce, e missili a lunga gittata. Il paradosso è servito: la nazione che celebra la libertà come valore assoluto è la stessa che più spesso l’ha negata agli altri.
Riflessione finale
Ogni bandiera americana che sventola oggi ricorda non solo la resistenza all’Inghilterra, ma l’oppressione di tutti coloro che non rientravano nel sogno americano. Un sogno costruito sul sonno eterno degli altri. Oggi più che mai, in un mondo che si risveglia dalle narrazioni egemoniche, è tempo di guardare in faccia questa ipocrisia storica.
L’Indipendenza non è mai tale se costruita sull’asservimento altrui.
E il patriottismo che ignora il dolore che ha causato, è solo vanagloria travestita da fierezza.
Citazione d’autore
“Non camminare dietro di me, potrei non sapere dove sto andando. Non camminare davanti a me, potrei non volerti seguire. Cammina al mio fianco e sii mio amico.”
Proverbio navajo
Consiglio consapevole
Prima di celebrare, informati. Cerca le voci dimenticate, leggi le storie dei popoli nativi, ascolta le testimonianze di chi ha subito. La consapevolezza storica è il primo passo per costruire una società davvero giusta: non possiamo cambiare il passato, ma possiamo scegliere di non ripetere i suoi errori.
Grazie per la lucida riflessione. Condivido ogni parola. Gianluca