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Non avrete il mio odio- il dovere di vivere.

Il 13 novembre del 2015, alle 22:45, un gruppo di terroristi entra nel Bataclan e apre il fuoco sui presenti. Moriranno 131 persone, mentre più di 400 saranno i feriti.

Tra queste vittime c’è Hélène, madre del piccolo Melvil e moglie di Antoine Leiris, il regista del documentario.

Proprio il marito scriverà una lettera aperta ai terroristi sui social media, divenuta manifesto delle vittime del terrorismo.

“Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.

L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio.”

Il libro di Antoine Leiris, non avrete il mio odio che racconta della strage del Bataclan

A tre mesi dalla strage Antoine inizia a chiedersi se questo dolore, questa assenza, passerà mai, se sia giusto che passi e come fare a vivere dopo tutto questo.

Il viaggio del regista inizia intervistando il suo migliore amico, l’uomo con cui Hélène era al concerto degli Eagles of death metal al Bataclan, gli chiede della sua vita quotidiana, della sua paura.
Le sue domande non sono pilotate, sono spontanee perché il regista non è autore e non è spettatore, Antoine Leiris è il protagonista, è l’intervistatore e l’intervistato è una vittima come le persone che incontra.
Dopo aver parlato con il suo amico, Antoine decide di incontrare chi quei giorni li ha vissuti.
Lui stesso ammette di non saperne il motivo.
Intervista i superstiti dell’attacco al Bataclan, i familiari di persone che non ce l’hanno fatta. Incontra le vittime del terrorismo e chiede loro una semplice cosa: si può perdonare? Si può tornare a vivere?

Antoine costruisce un castello di esistenze dai tempi diversi. Incontra ferite del passato come lo psichiatra che vide i suoi genitori portati via dalle SS, una donna francese rimasta gravemente offesa dall’attentato del 1986. Chiede a loro se quel dolore passa o se invece rimarrà lì, al centro del loro cuore. A sei mesi dall’attacco al Bataclan incontra nuovamente Aurélie, che era incinta di cinque mesi quando il marito fu ucciso. La sua vita è cambiata, in meglio, ora, ora che ha dato di nuovo la vita.

Antoine Leiris non nasce come cineasta- è un giornalista. Ma in questo documentario, pieno di immagini evocative, di pause e di riflessione, il regista ci dona un prodotto perfettamente amalgamato, grazie anche a una splendida colonna sonora (“Where is my mind”, in versione acustica su tutte), e una cura delicatissima per i dettagli. La ricerca di risposte, l’essere il portavoce di migliaia di vittime, rende Antoine Leiris il simbolo della sopravvivenza, della forza della vita sopra ogni cosa.

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