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Il macellaio di Phnom Penh

Il macellaio di Phnom Penh è la ricostruzione, l’indagine e l’intervista ad alcuni dei protagonisti di uno dei più atroci genocidi della seconda metà del ventesimo secolo. Senza risparmiare nulla allo spettatore, ripudiando la comodità della censura, il documentarista Mario Zanot ci porta nel cuore nero della Cambogia.

E in quel nero incontriamo una figura ambigua, con lo stesso fascino contorto per il quale erano conosciuti carnefici come Heydrich e gli altri gerarchi nazisti. Si tratta di Kang Kek Iew, detto Deuch, uno dei principali esecutori dei massacri ordinati dagli Khmer rossi.

A TU PER TU CON IL MOSTRO

Il suo volto anziano, con le rughe ampie e i denti cedevoli, compare davanti alla macchina da presa con candore e semplicità. Alle spalle il muro bianco del centro di detenzione dove è rinchiuso per i crimini commessi, mentre fuori dalla stanza il processo contro i responsabili del genocidio continua senza sosta.

E al centro dell’inquadratura, così come al centro della sua storia personale, il sorriso dall’apparenza serena e canzonatoria di quello che per tutti rimarrà il Macellaio di Phnom Penh.

L’intervista a cui si sottopone ripercorre il suo ruolo come capo della polizia interna del partito degli Khmer rossi, la sua partecipazione ai sanguinari piani di epurazione sociale in cui la classe media e intellettuale della Cambogia fu sterminata. E, naturalmente, la sua attività di interrogatore e aguzzino nel centro S-21, conosciuto dagli abitanti della città come “il posto da cui non si torna più”.

GENEALOGIA DI UN MASSACRO

Le domande degli intervistatori non mettono mai in difficoltà Deuch. Quando abbandona il suo sorriso affabulatore, lo fa per spiegare dettagli tecnici che ritiene di dover chiarire. Ma in nessun caso si scorge sulla sua faccia il rimorso, il dubbio, o il pentimento. Il racconto di Deuch è quello di tutti i massacratori professionisti: eseguivamo ordini, i colpevoli sono altri.

Il documentario di Zanot si arma allora di altre voci, sopravvissuti, giudici, mediatori ed esperti di vario tipo, tra cui il celebre psicologo Philip Zambardo. Grazie al loro intervento, alla loro ricostruzione, emerge un quadro più chiaro della mentalità e delle dinamiche che sono sorte durante gli anni del regime di Pol Pot.

Quelle stesse dinamiche di deresponsabilizzazione, dove le colpe personali possono essere tranquillamente scaricate su un sistema sbagliato, che hanno costituito la forma essenziale di ogni regime totalitario e dei suoi artefici. Lo scudo del condizionamento esterno e della catena di comando.

Purtroppo, gli anelli più alti della catena cambogiana sono morti o lo saranno presto. Lo stesso vale per Deuch, al centro di un’indagine febbrile della corte cambogiana per portare almeno un verdetto di giustizia prima che i responsabili siano tutti spariti. Il Macellaio di Phnom Penh, nel suo spirito documentaristico, cerca di fare lo stesso: portarci una verità, prima che si perda per sempre.

UN DOCUMENTARIO FEDELE FINO ALLA FINE

È il caso di dirlo senza girarci intorno: il Macellaio di Phnom Penh non è un documentario per tutti. Senza cadere nella morbosità dello sguardo desensibilizzato, Zanot non esita comunque a mostrarci i reperti fotografici di quell’epoca. I corpi martoriati, le torture inflitte, l’occhio su quei dettagli che colpiscono nel profondo. Dettagli shoccanti, ma che ci ridanno la dimensione del reale, senza alcun compromesso.

Il lavoro di Mario Zanot riordina questo reale, lo reinterpreta attraverso il montaggio e condensa nelle sequenze di immagini la visione grottesca di un periodo storico colmo di atrocità, sopra il quale campeggia costantemente l’enigmatico sorriso di Deuch.

Pur rimanendo un’opera cruda, pesante da digerire e per la quale bisogna prepararsi, il Macellaio di Phnom Penh è un documentario essenziale non solo per ricordare degli avvenimenti importantissimi che hanno coinvolto la Cambogia e le grandi potenze mondiali, ma anche per scorgere quell’aspetto spaventoso della natura umana che troppo spesso vogliamo dimenticare.

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